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Livorno, tra fantasmi e spiriti liberi

Omaggio alla mia città e alle radici del romanzo "Chiedi a Coltrane".


Livorno, tra fantasmi e spiriti liberi
Livorno, tra fantasmi e spiriti liberi

A volte non si sa nemmeno perché si è in un modo oppure in un altro. Credo, però, che una parte di me sia dovuta al mio essere livornese, un livornese atipico. Non parlo il dialetto, non ho neppure l'intonazione, non vivo a Livorno da ormai 20 anni e vi torno raramente, ma ne conservo le radici. Lo stesso romanzo Chiedi a Coltrane è un viaggio alla ricerca dell'anima perduta del protagonista e, anche se è ambientato a Firenze, in un piccolo, stralunato capitolo torno nella mia città, ritrovando i fantasmi che la abitano, me compreso. Da tutto ciò e dall'opportunità di promuovere il romanzo Chiedi a Coltrane (se vuoi saperne di più clicca qui , mentre se vuoi comprarlo su Amazon clicca qui) è nato l'articolo su Livorno a mia firma, pubblicato dal quotidiano Il Messaggero che troverai di seguito. In appendice una piccola nota turistica che mi hanno espressamente richiesto per invogliare i viaggiatori a farvi tappa, offrendo anche qualche consiglio utile. Ho pensato che a Livorno, oltre ai livornesi, c'è solo il mare e di quello ho parlato per quel che mi ricordavo. Buona lettura, de...


LIVORNO E I SUOI FANTASMI

Livorno è popolata di fantasmi che assumono varie forme. A volte sono arbusti che d’inverno si arrampicano nudi dai fossi del quartiere Venezia, altre assenze che si aggirano per i loggiati di via Grande (l’arteria del centro che conduce fino al Voltone, la piazza-ponte sotto cui scorre un canale); altre ancora ectoplasmi che pigliano forma dal fumo dei “ponci” serviti bollenti nelle bettole vicino alla stazione. Livorno è il via vai sul lungomare vicino ai bagni Pancaldi, le arguzie gridate in piazza Cavallotti dai venditori di pesce e ortaggi. Livorno è un’alzata di spalle a cui s’accompagna il “m’importa ‘na sega”, filosofia cara ai livornesi. Livorno è malinconica e festosa, libera e conforme. A Livorno sono nato, ma non ci vivrei. Livorno è un altrove a cui costantemente mi riferisco come a un’anima cara: la mia.

Chi meglio di tutti ha descritto i fantasmi di Livorno è Giorgio Caproni, un poeta mezzosangue divisa tra Genova e la mia città. In lui era chiara quella visione, mossa dal mare, che unisce chi va a chi resta “Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. // Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai”. La vita di sua madre, Anna Picchi (cognome che ai livornesi ricorda le gesta del grande Armando a cui è intitolato lo stadio) era legata al quartiere che sta tra Corso Amedeo, Piazza della Vittoria e che si spinge fino al Cisternone, un monumentale serbatoio d’acqua in stile neoclassico.

I fantasmi a Livorno passeggiano tra i fossi del quartiere Venezia. In origine doveva essere un agglomerato di canali utili al commercio, laddove le botteghe potessero calare a mare le loro mercanzie e farle confluire verso il porto, poi le anime si sono rese conto che quel posto era stato costruito apposta per loro e, dato che piace di molto anche ai vivi, sono nati dei centri di smistamento, locali dove si può bere, mangiare e fare festa o ricongiungersi alle voci ormai perse. Modigliani, i cui amici dell’ex caffè Bardi erano convinti avesse gettato le teste nei fossi, passò di lì l’ultima volta nel 1913 eppure vi è sempre rimasto il suo spirito ribelle. Bar, risate a tarda notte, le “e” aperte, dilatate fino all’inverosimile, i “de” gridati, sussurrati con la voce rotta nel pianto e nel riso, sono come fuochi, per gente abituata a fare falò sulla spiaggia e a cantare canzoni malinconiche o oscene.

La musica che sia quella di Mascagni, di Piero Ciampi, Bobo Rondelli o degli amici Virginiana Miller è tutta un invito a intellettuali e ubriaconi a farsela a piedi la vita, scantonando di qua e di là e perdendo tempo, perché tanto i livornesi li trovi sempre sdraiati sugli scogli piatti nella zona a sud di Livorno. Le rocce levigate dal mare e dal vento giacciono sotto la Torre di Calafuria, laddove si cercava di avvistare le imbarcazioni nemiche e la terra perché a Livorno si guarda sempre verso il mare, tanto che pare di essere partiti e mai ancora tornati.

E fino a che l’aria calda che risale dall’Africa non si infila di sotto le fessure, dalle persiane socchiuse, è ancora tempo per bere un “ponce”. Si tratta di una sorta di grog tipico del posto pronunciato rigorosamente come si leggerebbe se fosse una parola italiana. Una mistura, però, di derivazione britannica, che al tè di Sua Maestà ha sostituito caffè concentrato con una punta di zenzero e al rum delle Antille un rumme fantasia, invenzione locale costituita da alcol, zucchero e caramello di colore scuro, a volte aromatizzato con un'essenza di liquore all’anice o rum. Pozione usata soprattutto dai pescatori per scaldarsi dopo una notte passata all’addiaccio. Nei bar livornesi lo servono nel gottino, un bicchiere di vetro piuttosto spesso, leggermente più grande di quello che si usa per il caffè. Quando lo bevi al Bar Civili in via del Vigna a due passi dalla stazione lo fai in mezzo a gente che gioca a tre sette col morto e, bevendo e guardandoli, ti ustioni le papille, ti si appannano gli occhiali, tanto che i vivi scompaiono e resta l’ebbrezza.

A Livorno la libertà è nata. I livornesi sono incrocio di razze grazie alle leggi “livornine” (dei provvedimenti emanati dal Granduca di Toscana Ferdinando I de Medici sul finire del 1500). A motivo di ciò divenimmo popolo, accogliendo tutti, principalmente ebrei, armeni, greci, turchi, inglesi, spagnoli e mori (per questo i livornesi non vanno orgogliosi della statua de I Quattro Mori al Porto con i quattro schiavi incatenati). Per popolare i nostri lidi acquitrinosi aprimmo, quindi, le nostre bettole a gente dispersa e perseguitata. Lo stesso Vernacoliere, mensile testimonianza d’arguzia, motti e ingiurie contro i pisani, è ancorato allo scoglio della libertà e irride ancora oggi il potente e l’iniquo. A Livorno la libertà è nata perché noi, unici, mai avemmo un ghetto e i nostri cognomi hanno tutti i suoni del mondo. A Livorno siamo cacciucco, piatto povero e variegato di pesce che si può gustare nei ristoranti del porto, siamo testa e lische, pieni zeppi di vita e nemmeno i fantasmi da questa città se ne vanno mai per davvero.

IL MARE PER I LIVORNESI


Il mare per i livornesi esiste solo in città e a sud della stessa, poiché le dune di Tirrenia (prossime alla nemica Pisa) non vanno giù ai miei conterranei (detti triglie di scoglio). Per questo in città gli stabilimenti balneari sono essenzialmente costituiti da macigni e cemento. Tra questi i più famosi sono i bagni Pancaldi, stabilimenti balneari nati nel 1924 e che un dì ospitarono un turismo colto e d’elite.

A parte gli stabilimenti cittadini, frequentati ormai da torme di ragazzi vocianti e dal popolo verace, è abitudine dei labronici (che non sovente non intendono pagare biglietto d’ingresso) stendere gli asciugamani in un fazzoletto di ghiaia oltre il muro dell’Accademia Navale.

Oltre i Bagni Lido sorge la Rotonda d’Ardenza, ampio spazio che si affaccia direttamente sul mare con al centro un boschetto di pini marittimi modellati dal vento. Da qui si giunge alla spiaggia dei Tre Ponti, ritrovo di surfisti dai capelli schiariti dal sole e da tinture di parrucchieri maldestri. Proseguendo verso sud troviamo il viale d’Antignano che offre un paio di discese a mare (la più carina in prossimità del Circolo Velico).

Passato lo Scoglio della Nave e la spiaggia di Miramare, la via del Litorale confluisce con la via Aurelia, disegnando un belvedere di scogli rossastri mollemente adagiati sul mare (il Romito). L’acqua, a seconda del vento, è smeraldo e i livornesi, chi col motorino, chi con la macchina, confluiscono qui tutti i giorni. La Torre di Calafuria li sorveglia immota. A sud la sagoma della villa Sonnino, appartenuta a Sidney Sonnino, Ministro del Regno d’Italia e pisano, sotto la quale si trova un meraviglioso porticciolo in pietra, accessibile abusivamente dall’Aurelia grazie a “storici” buchi nella rete di recinzione. Ancora un paio di curve per giungere a Quercianella con la splendida spiaggetta sassosa del Rogiolo o quella dei Paolieri, entrambe a pagamento. Tra le spiagge libere da citare quella di Fortullino, con i suoi ciottoli abbaglianti, enormi e scomodi. Da lì fino a Castiglioncello un litorale punteggiato di ville con splendide discese a mare. Alcune sono abitate o almeno manutenute, mentre altre in rovina. Proprio in queste ultime generazioni di livornesi hanno provato a notte il proprio coraggio, sfidandone i fantasmi. La più recentemente abbandonato è Villa Godilonda, laddove D’Annunzio scrisse l’Onda: "Nella cala tranquilla scintilla, intesto di scaglia come l'antica lorica del catafratto il Mare...."

In generale a Castiglioncello si danno convegno fantasmi ben più interessanti quali quelli di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e tutta l’Italia dello spettacolo che brillò durante il boom economico e che qui trascorse le estati o girò film (Il Sorpasso ne è il simbolo). A Castiglioncello c’è, infine, la splendida pineta che offre requie al sole e il castello Pasquini. Ricordo le affascinanti prove degli spettacoli di danza cui Micha Von Hoecke, discepolo di Maurice Bejart, concedeva di assistere e noi arsi dal sole, ma anelanti di bellezza, ci sentivamo felici.



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