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10 jazz album da ascoltare: 7 "Helm" degli Hobby Horse
Aggiornamento: 15 set 2019

Tutte le volte che parlo con Francesco (Cusa), uno dei migliori batteristi jazz italiani, il mio entusiasmo si guarda allo specchio, fa la faccia seria per evitare di apparire velleitario. In effetti tra essere ingenui e appassionati la linea di confine è sottile. Parlare con un musicista così culturalmente e esperenzialmente evoluto come Francesco (ascolta il suo splendido Black Pocker e leggi il post "Una vita sola non basta: jazz, follia, cinema, libri di Francesco Cusa") è quantomeno fonte di dubbio, Cosa diavolo è oggi il jazz italiano? E, soprattutto, è ancora vivo? Per esserlo dovrebbe risultare impavido, sperimentatore, se possibile anti-tradizionalista, dovrebbe abbattere i sacri totem per rinascere nuovo ogni volta. La prendo dal punto di vista macro-economico: se l'editoria italiana vale un decimo, ad esempio, del mercato farmaceutico, il mercato musicale vale meno di un decimo dell'editoria e, dunque, un centesimo di qualsiasi mercato economico evoluto nostrano. Quanto mai può valere il jazz, sottoinsieme del mercato musicale? Un microbo, un'inezia. Più i mercati sono piccoli, più le lobby comandano, più si abbassa la "quota di sperimentazione". Ma l'arte non è mercato! L'artista è figura eroica che ha da sempre stretto un patto con l'indigenza! Tale quota di nobiltà si è, però, ormai ristretta. I tempi sono spietati, i lavori saltuari spariti, le docenze stabili per pochi, le libere rassegne sono oggetto raro e di mecenati all'orizzonte non se ne vedono. Come campa, dunque, un musicista jazz? Come, soprattutto, se libero, liberissimo e iconoclasta sperimentatore e, dunque, portatore di esiguo pubblico? Persino Pasolini pretendeva che di un personaggio fosse chiara la condizione economica così da renderlo reale, da spiegarne il sentire e le conseguenti azioni.
Mi piace divagare, lo so, ma parto proprio da qui per parlare di Helm, l'ultimo progetto degli Hobby Horse, ovvero Dan Kinzelman (sassofono e clarinetto), Joe Rehmer (contrabbasso) e Stefano Tamborrino (batteria). Ho avuto la fortuna di vederli dal vivo un paio di volte, la seconda in formazione allargata con i Ghost Horse. I "cavalli a dondolo" sono, così come si definiscono un progressive/crossover/experimental jazz trio based in Italy. Parto a maggior ragione da qui, sia per il respiro interculturale che per la particolare vocazione di questi ragazzi di 30/40 anni, da seguire anche sui social, quando, ad esempio, fanno musica in mezzo alle pecore, utilizzando oltre ai loro strumenti il casuale suono dei campanacci. Il loro è un "jazz sistemico", ovvero un jazz parte degli elementi, del contesto che determina il sentire, che evita di chiudersi nella dimensione autoriale per nutrirsi delle contaminazioni positive e negative dell'ambiente. In ciò, a mio avviso, sono davvero "indie", non un prodotto ma un frutto delle radici che si sporcano di terra negli interstizi dell'asfalto nei quali il jazz cresce e prospera. La loro musica proprio per questo carattere naturale è capace di innovazione. Con naturale, per capirci, intendo immerso nel contesto in cui viviamo a prescindere che sia accettabile o meno. Lo stesso contrasto ideale-reale conduce all'innovazione. Oltretutto trovo che il jazz, più di altre forme d'arte abbia un legame simbolico con la natura. Faccio un esempio: quando l'interconnessione tra fusto e foglie di certe piante cede, si stacca e cade per terra, nella foglia defunta entrano in circolo nuovi ormoni che risvegliano delle gemme dormienti le quali a loro volta fanno diventare radice ciò che fu foglia. Gli Hobby Horse sono questo, jazz e cazzeggi elettronici non volti a creare suoni che, fatalmente, non saranno mai nuovi, bensì per riprodurre l'emotività del nostro quotidiano e per andare oltre essa stessa, così da sublimarla e renderla arte. I "cavalli a dondolo" hanno rifiutato di essere come le lattughe del supermercato, roba a cui, via via, grazie a successive ibridazioni hanno tolto l'amaro per divenire sempre più palatabili. Ma occhio, perché il gradevole alla lunga stanca persino i più abitudinari e certi scarti, specie in epoche storiche come la nostra sono necessari. Lo so, mi piace divagare e potrei continuare a parlarti di piante e arbusti, ma il jazz è questo, è meticcio per sua stessa natura ed è sistemico, ovvero endemicamente legato alla realtà complessa di cui si nutre, per questo non può essere messo sotto una teca di cristallo e ripetere clichè. Mi fa piacere quando vedo i concerti in cui il già citato Francesco Cusa, così come Stefano Tamborrino portano i giocattoli, veri e propri balocchi che suonano all'interno delle loro iterazioni musicali. L'innovazione parte dall'ironia, dall'autoironia che consente libertà, abbattendo prima di tutto il proprio ego. Helm è la summa di tutto ciò. Dovessi consigliare ai diversi caratteri, agli ascoltatori più o meno inclini, continuerei con queste incongruenti associazioni di idee, questa allusioni (chi definisce riduce l'opera invece di spiegarla). Direi, dunque, che nel fluire ipnotico di Amudsen/Evidently chicken town di di John Cooper Clarke ho risentito il quotidiano, la strada affollata, le figure aliene di sconosciuti, il bene e il male della nostra solitudine, le voci ripetute, le voci mai ascoltate, ciò che ossessivamente ci ripetiamo a fine giornata fino quasi ad impazzire come se fossimo tutti dentro America Oggi di Altman e in Salsa Caliente la musica di John Carpenter in 1997: Fuga da New York. Il groove di The Go Round, il più jazz del progetto, con la batteria di Tamborrino (quanto mi piace) che picchia duro il ritmo metropolitano, inquieto, le voci che invece di essere punto di contatto con il reale divengono ulteriore fuga nell'iperspazio. La stessa Cascade con il soffio legnoso, pensoso di Kinzelman che spinge sincopato, reiterando e variando, così come il sentire, quando abbraccia il tutto e lentamente si distende fino a essere parte stessa di ciò che intende comprendere, divenendo a sua volta compreso e la cosa più bella è che tutto questo magma non stanca, si ascolta e riascolta volentieri anche se non è lattuga sopraffina, anche se l'amaro permane, anzi, proprio per questo è più stimolante, proprio per questo l'acquolina cresce.
Perciò rispondo a Francesco che ha ragione: Il jazz deve ciclicamente uccidere sé stesso per essere jazz. Per questo ascolto volentieri gli Hobby Horse e sono incline a gustare lattuga amara.
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Ti consiglio anche il post sul nuovo Blue World, il capolavoro riscoperto di John Coltrane.
Considera, infine, che sei approdato in un blog di libri e jazz. Se ti piacciono i romanzi ti consiglio di leggere anche il post Romanzi ispirati dal jazz oppure "Chiedi a Coltrane e altri romanzi invisibili in libreria" tenendo conto che "Chiedi a Coltrane" è il mio romanzo.
Un romanzo che ho particolarmente amato e recentemente recensito è Tutto quello che è un uomo di David Szalay. Clicca qui per leggere la recensione.